L’artista allo specchio: breve storia dell’Autoritratto

Nel realizzare il «ritratto di sé stesso» l’artista conferisce alla sua immagine caratteristiche di verosimiglianza (anche nel caso che la figura sia resa in modo innaturale) tali per cui chi osserva l’opera possa riconoscervi le (altezze dell’artefice. Si può parlare di cripto-autoritratto o di pseudo-autoritratto quando, pur in assenza di figure di per sé individuabili, emerge comunque un’aspirazione all’autoritratto. Un esempio di cripto-autoritratto può essere considerato la celebre immagine dell’orefice-scultore carolingio Vuolvinio sulla faccia posteriore dell’altare della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano (inizi sec. IX), dove la figura, pur priva di tratti ben caratterizzati, è accostata al nome dell’artefice, il quale perciò vi si è senz’altro rappresentato.

Un altro esempio di cripto-autoritratto è quello di “Marcia pittrice”, miniatura contenuta in un codice miniato (1402) del “De claribus muliebris” di Giovanni Boccaccio custodito presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.

Un esempio di pseudo-autoritratto è invece, in anni più vicini, il cosiddetto Autoritratto come farabutto di J.M. Basquiat (1982), un’irriconoscibile maschera primitivista cui l’autore ha attribuito uno status di autoritratto in quanto espressione del proprio sentimento e gusto creativo A prescindere dal loro pregio qualitativo (la loro storia formale e stilistica non si discosta da quella dei coevi ritratti), gli autoritratti presentano particolari motivi di interesse. Descrivendovi il proprio volto e il proprio corpo, con espressioni e positure che riflettono convenzioni ma anche originali scelte autorappresentative, e poi collegandoli con oggetti di valore allegorico o simbolico oppure ambientandoli e accostandoli ad altre figure, gli autori vi infondono in modo conmessaggi, poetiche, aspirazioni private e pubbliche.

La produzione dell’autoritratto presuppone due indispensabili fattori culturali: la volontà e capacità artistica di descrivere la figura umana e il mondo terreno; e il riconoscimento all’artista di particolari doti inventive e intellettuali che lo rendono degno di essere celebrato e commemorato. Tali condizioni sono già attestate in età classica. Plinio il Vecchio e Plutarco testimoniano l’esistenza di autoritratti scolpiti o dipinti, non sopravvissuti: da quello di Fidia, collocato tra le ligure che ornavano lo scudo della colossale statua della Atena Parthenos nel Partenone di Atene (metà sec. V a.C.), Atena Partenos a quello della pittrice-vestale romana Marcia che si ritraeva con l’aiuto di uno specchio (strumento indispensabile per l’esecuzione degli autoritratti anche in età moderna), di cui vi è traccia nella miniatura di un manoscritto del De Claris mulieribus di Boccaccio (1402, Parigi, Bibliothèque Nationale), la più antica rappresentazione di artista in atto di ritrarsi.

L’autoritratto riappare agli albori del rinascimento, nel nuovo clima di riscoperta dell’individuo e di rivalutazione del ruolo dell’artista. Data a quell’epoca anche l’invenzione dello specchio piatto (in alternativa a quello convesso e di piccole dimensioni di età anteriore) che consentì agli artisti di esaminare le proprie fattezze senza distorsioni e su superfici riflettenti più ampie.

Negli esordi dell’autoritratto moderno, tra la fine del sec. XIV e lungo il secolo seguente, occorre distinguere tra l’autoritratto come genere autonomo (che a quell’epoca esisteva solo nel campo della medaglistica), e l’autoritratto come dettaglio inserito entro opere di diverso tema, a scopo inizialmente votivo e a mo’ di firma, ma presto anche autocelebrativo.

Nel 1359 Andrea Orcagna incluse il suo autoritratto tra le figure del Tabernacolo a rilievo con la Morte e Assunzione della Vergine (Firenze, Orsanmichele), dando inizio alla sequenza di autoritratti collocati entro pale e affreschi (l’autoritratto di Benozzo Gozzoli entro il Corteo dei Magi nella Cappella di Palazzo Medici-Riccardi a Firenze; quello di Botticelli nell’Adorazione dei Magi agli Uffizi, 1475 ca) che culmina con l’autoritratto di Raflaello tra i filosofi della Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura (1509-11).

In alcuni casi gli autoritratti, pur entro opere di altro soggetto, tendevano ad assumere un carattere più autonomo, preludendo al successivo evolversi del genere: tali i busti-autoritratto di Lorenzo Ghiberti nelle cornici dei due portali bronzei del Battistero di Firenze (dal 1401) e i finti quadri con le effigi degli autori affrescati da Perugino nel Collegio del Cambio a Perugia (1500) e da Pinturicchio nell’Annunciazione in Santa Maria Maggiore a Spello (1501).

Nelle Fiandre si diffuse dalla metà del sec. XV, a partire dallo studio di R. Van der Weyden, la consuetudine dei pittori di rappresentarsi nelle scene con «San Luca che ritrae la Vergine» nei panni dell’evangelista, patrono dei maestri del pennello.

Gli unici autoritratti autonomi del sec. XV si riscontrano in Italia su medaglia: LB. Alberti, il primo a teorizzare la dignità «liberale» degli artisti, pose il suo ritratto su una medaglia realizzata verso il 1430 (la cui autografia albertiana non è però da tutti accettata), imitato dal pittore veneziano G. Boldù che coniò un’analoga medaglia nel 1459.

Un ruolo particolare spetta al tedesco Albrecht Dürer. La sua orgogliosa autocoscienza di artista si espresse, dal 1493, tramite l’esecuzione di ben tre dipinti incentrati sulla sua figura, tra i quali è soprattutto celebre quello a Monaco (1500), nel quale si ritrasse a mezzo busto con le fattezze di Cristo, come attestato di pietas religiosa.

In Italia l’autoritratto autonomo dipinto esordì all’inizio del sec. XVI, in concomitanza con una piena affermazione del ruolo creativo degli artisti. Le opere erano inizialmente destinate alle dimore dei loro autori, o erano donate a illustri amici o committenti, a scopo promozionale: il giovane Parmigianino giunto a Roma donò a papa Clemente VII il suo celebre Autoritratto allo specchio (Vienna, 1524, Kunsthistorisches Mus.) per farsi conoscere e stimolare commissioni.

Divennero però presto ambiti pezzi da collezione, finendo nelle gallerie di ritratti e in particolare nelle raccolte medicee (come nucleo iniziale della grandiosa raccolta di autoritratti degli Uffizi). Presso alcuni artisti, l’autoritratto divenne un ambizioso manifesto autopromozionale. Giorgione per es. sì raffigura come David con la testa di Golia, forse per alludere ai suoi trionfi artistici (in stato frammentario a Braunschweig, 1505-10 ca).

La drammatizzazione dell’autoritratto tramite il travestimento narrativo, mitologico-allegorìco o religioso, stimolerà, un secolo più tardi, le identificazioni di Caravaggio con le tormentate figure dei suoi dipinti, ma l’artista non attribuirà le sue fattezze ai «vincitori», bensì ai «perdenti», come appunto Golia (1610 ca, Roma, Galleria Borghese, Davide con la testa di Golia).

Durante il Cinquecento, per alcuni decenni gli artisti italiani non si rappresentarono al lavoro o con gli strumenti del mestiere, che forse parevano squalificanti: Baccio Bandinelli, nell’Autoritratto (1530 ca, Boston, Isabella Stewart Gardner Museum), è nobilmente abbigliato, in un\’ambientazione aulica, e mostra il progetto grafico di una statua, poiché la fase ideativa era ritenuta più eccelsa di quella esecutiva; anche Tiziano nei suoi vari autoritratti, sontuosamente vestito, pone in risalto il volto ispirato e le mani, mobili ma inattive; G.P. Lomazzo accumula nel, suo busto dipinto, attributi di accademico, tra i quali un libro e un compasso, simboli di cultura e di demiurgica inventività (1568 ca, Milano, Pinacoteca di Brera).

Ha orìgine nelle Fiandre, alla metà del sec. XVI. la tipologia di autoritratto che presenta l’artista coi pennelli in mano o al lavoro davanti alla tela, precocemente ripresa anche in Italia da Alessandro Allori (1555 ca, Uffizi, Firenze), Sofonisba Anguissola, che ritraendosi mira a promuovere il suo insolito personaggio di grande donna pittrice (1555 ca, Lancut, Muz. Zamek), Palma il Giovane (1590-1600, Milano, Pinacoteca di Brera).

Tra i più sorprendenti autoritratti cinquecenteschi si può ancora ricordare quello di M. Van Heemskerck (1553, Cambridge, Fitzwilliam Museum), pittore fiammingo della corrente «romanista», che accosta il suo busto a una veduta del Colosseo, a titolo di dichiarazione di poetica e riferimento ideale.

Nel corso del Seicento, che si apre coi drammatici autoritratti caravaggeschi di cui si è detto, o col sibillino esperimento di Annibale Carracci, che ritrae un angolo oscuro del suo studio con un proprio ritratto sul cavalletto (1604 ca, San Pietroburgo, Hermitage), l’autoritratto in Italia come in Spagna, in Francia e nelle Fiandre, si afferma soprattutto come un vivace strumento di promozione e autocelebrazione idealizzante, sia che l’artista si ritragga davanti alla tavolozza o in uno studio (N. Poussin, Autoritratto, 1650, Parigi, Louvre), che spesso si affolla di suonatori e suonatrici a sottolineare la nobilitante equazione tra prttura e musica (C.F. Nuvolone, La famiglia del pittore, 1646 ca, Milano, Brera), oppure con un piccolo libro in mano (Domenichino, Autoritratto, 1610-12, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti), o accanto a un grande girasole, emblema amoroso (A. Van Dyck, 1633 ca, Collezione duca di Westminster), sia che posi come un gran signore nobilmente seduto al fianco della consorte (Rubens, Autoritratto con la moglie, 1609, Monaco, Alte Pin.).

Ritraendosi accanto all’infanta spagnola e ad altri personaggi della corte, Diego Velazquez in Las Meninas (1656. Madrid, Prado) celebra contemporaneamente i suoi reali committenti, sé stesso come artista di corte e la pittura come lucido specchio della vita; mentre Salvator Rosa filosofeggia, accostando la sua effigie a un moralistico motto latino (1645 ca, Londra, National Gallery): spunto, tre secoli più tardi, per alcuni autoritratti metafisici di Giorgio de Chirico, corredati di analoghe, pensose targhe.

Una novità seicentesca, con l’affermarsi dei «generi», è l’adeguarsi dell’iconografia degli autoritratti al repertorio in cui ciascun artista era specializzato: i pittori di genere fiamminghi e olandesi collocano la loro figura in ambienti di taverna, o in studi umili quanto le cucine da essi predilette (A. Van Ostade, Autoritratto, 1633, Dresda, Gemaldegal.); lo specialista di natura morta si circonda degli orpelli di cui affolla i suoi quadri (J. de Beckberghe, 1633, Firenze, Uffizi); un «animalista» come il francese A.-F. Desportes si ritrae nei panni di un cacciatore, tra cani e trofei di prede (1699, Parigi, Louvre).

Rembrandt fa dell’autoritratto un tema ricorrente della sua pittura, non di rado deponendo ogni intento autocelebrativo o allegorico, per localizzare l’attenzione sul busto, il volto, gli occhi e la sottile aura malinconica che da essi emana; nasce la concezione dell’autoritratto come strumento di indagine introspettiva, che avrà largo seguito soprattutto nei secc. XIX e XX.

Di fronte alla varietà degli autoritratti secenteschi, in quelli settecenteschi gli artisti ricorrono per lo più a inquadrature e pose del repertorio anteriore, sia pur aggiornate allo stile del tempo. Le opere più interessanti, stimolate da un’attenzione «illuminista» alla realtà, si collocano soprattutto verso la metà del secolo o nella seconda metà di esso quando, deposta l’artificiosità degli stilemi rococò come più tardi del gusto neoclassico, l’autoritratto propone tagli visivi, gesti ed espressioni nuove, puntando su inediti effetti di naturalezza e spontaneità (P. Subleyras, Autoritratto al cavalletto, 1746 ca. Vienna, Ak. der Bildenden Kunste; J. Reynolds, 1748-49 ca, Londra, National Portrait Gallery; E. Vigée-Lebrun, 1790, Firenze, Uffizi; i vari autoritratti di J.-B.-S. Chardin); né va passata sotto silenzio l’inclusione, nella stupefacente sequenza delle «teste di carattere» eseguite dallo scultore paranoico tedesco F.X. Messerschmidt, di vari autoritratti piegati ad esprimere caricate espressioni facciali ed esasperati stati emotivi.

Nel primo Ottocento, se si escludono casi particolari, del genere dell’Autoritratto nello studio di T. Minardi (1813 ca, Firenze, Uffizi), immagine-simbolo della nuova tipologia dell’artista bohémien, dove la figura è parte di un’ambientazione che ne sottolinea l’indigenza e la solitudine, si predilige l’autoritratto a mezzo busto e su sfondo neutro dal quale traggono risalto soprattutto il volto e l’espressione facciale: in tal modo F. Goya cerca nell’autorappresentazione la tormentata fisionomia dell’uomo moderno (1815 ca, Madrid, Prado) ed E. Delacroix esprime la sua fierezza di artista romantico (1842 ca. Firenze, Uffizi).

Anche il giovane G. Courbet riversa nelle proprie effigie un’esasperazione di bohémien (Autoritratto: l’uomo disperato, 1843, Oslo, Nasjonalgall.). per poi inserire il suo autoritratto in un’ampia visione a più figure del suo studio e dell’attività che vi si svolge (Atelier, 1855, Parigi, Mus. d’Orsay) cui si ispireranno gli autoritratti inseriti in scene di gruppo degli artisti impressionisti e dei loro sodali (H. de Fantin-Latour, Omaggio a Delacroix, 1864, Musée d’Orsay).

Gli impressionisti raffigurano sé stessi con distaccata oggettività, sia negli autoritratti autonomi, sia in quelli mimetizzati tra le scene di folla en plein air ed è solo al volgere del secolo, in clima postimpressionista e simbolista, che l’autoritratto ridiventa un drammatico documento interiore, esprimendo il disagio della condizione moderna dell’artista, come nel caso di A. Bocklin (Autoritratto con la morte che suona il violino, 1872, Berlino, Nationalgal), nella straordinaria sequenza delle opere di V. Van Gogh, nell’allucinato Autoritratto con sigaretta di E. Munch (1895, Oslo, Munch-Mus.).

Risale alla fine dell’Ottocento anche una più decisa rottura degli schemi tradizionali, in un clima figurativo ormai avviato in senso antinaturalistico, con P. Gauguin (Autoritratto con aureola, 1889. Washington, National Gallery) e J. Ensor (Autoritratto con maschere, 1899, Komaki, Mus. Menard).

La via era così aperta alle mille metamorfosi cui il volto e il corpo dell’artista sono stati sottoposti nel corso del Novecento: secolo che si apre idealmente con gli esperimenti precubisti dì Picasso il quale, attribuendo alla sua figura i tratti grossolani di una maschera africana (Autoritratto con la tavolozza, 1906, Filadelfia, Mus, of Art), si accosta al gusto primitivista degli artisti tedeschi del primo espressionismo (E.L. Kirchner, Autoritratto come bevitore, 1915, Norimberga).

Col «ritorno all’ordine» del primo dopoguerra, la ventata tradizionalista investe anche l’autoritratto, come ben indicano, in Italia, la serie degli autoritratti metafisici di de Chirico o, in Germania, il freddo realismo degli autoritratti nell’ambito della Nuova Oggettività (M. Beckmann, Ch. Schad).

Nei primi due decenni del secondo dopoguerra, l’autoritratto si fa raro in quanto inadatto al gusto astratto e informale prevalente, mentre esso toma in auge con la pop art, l’iperrealismo, le varie correnti neofigurative di fine secolo, col contributo anche del diffondersi della fotografia come medium artistico.

Nel moltiplicarsi degli autoritratti fotografici (Andy Wahrol, Gilbert & George, J. Beuys) o pittorici dagli anni Sessanta alla fine del secolo, prolifera il nudo, in varie accezioni e finalità: per provocazione esibizionistica, come gesto ironico, come espressione di disagio esistenziale. Grande fortuna è arrisa al Triplo autoritratto dipinto da N. Rockwell (1960), che mostrando sé stesso davanti a una tela intento a copiare con tratti idealizzanti il suo volto riflesso da uno specchio, sotto la tutela di autoritratti del passato, da Dürer a Picasso, riprodotti nel quadro, ha sintetizzato con brioso talento i meccanismi, la difficoltà, lo scopo e anche la storia secolare della raffigurazione del volto dell’artista.

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